Warm Bodies, d’amore si vive


Forzati dalle leggi di mercato, i “mostri” classici hanno smesso di frequentare cantine, armadi, sottoscala e altri luoghi in cui, nell’ombra, ci attendevano per ghermirci quand’eravamo bambini, abbandonando i nostri peggiori incubi per trasferirsi in spazi ben più innocui, come gli amoreggianti sogni adolescenziali:
la rielaborazione romantica del “mostro”, diviso fra i suoi istinti predatori e l’attrazione per una dolce e innocente fanciulla, spesso simbolo di una purezza ormai perduta, gioca su alcuni stereotipi dell’immaginario femminile (il fascino di un individuo pericoloso, ambiguo, che promette emozioni forti ed esperienze nuove), e ha il suo caposaldo nella saga di Twilight, con svariate diramazioni che spaziano da True Blood a Cappuccetto Rosso sangue, da The Vampire Diaries a Teen Wolf, fatte salve le rispettive peculiarità (True Blood, per intenderci, ha poco da spartire con Twilight).

Warm Bodies è l’ultima incarnazione di questa tendenza, che mai aveva preso in considerazione una figura inquietante – nonché povera di attrattiva a livello fisico – come quella del morto vivente.
Vero “mostro del Novecento”, il morto vivente ha coagulato in sé molti sottotesti di natura sociale e politica, soprattutto fra le mani di George Romero, che l’ha eletto a simbolo della decadenza occidentale nel consumismo e nella prevaricazione classista.
Nulla di tutto questo, ovviamente, in Warm Bodies, dove il morto vivente subisce invece una rilettura di carattere autoreferenziale: il protagonista R, interpretato da un valido Nicholas Hoult, è uno zombie consapevole del suo ruolo, che affronta la “routine” quotidiana con autoironia e disillusione. Soffre per la mancanza di ricordi (non ha memoria nemmeno del suo nome, se non dell’iniziale “R”) e per la sua incapacità di sognare, ma trova sollievo quando divora il cervello di Perry (Dave Franco), un ragazzo dell’ultimo avamposto umano esistente.
R ne assorbe i ricordi, le emozioni e i sentimenti, compreso l’amore per la sua fidanzata Julie (Teresa Palmer). È l’inizio del cambiamento: l’amore fa lentamente rifluire la vita nel corpo di R, che “contagia” anche i suoi cadaverici compagni. Ma sulla loro strada ci sono gli Ossuti, sorta di zombie 2.0 che, più spaventosi e aggressivi dei normali morti viventi, agiscono senza rimorsi, e minacciano non solo il rapporto fra R e Julie, ma anche la sopravvivenza dei pochi umani rimasti.

Tralasciando gli stucchevoli riferimenti a Romeo e Giulietta, Warm Bodies si rivela una piacevole commedia horror che, al contrario di Twilight, non si prende affatto sul serio, e ritrae la storia d’amore con sobrietà e tenerezza (anche in rapporto a una figura maschile che vince in sensibilità, piuttosto che in virilità). Ma l’aspetto più interessante è legato agli effetti della passione sul corpo del mostro: il sentimento si accompagna a una sottile attrazione fisica, e questa combinazione scalda il corpo di R con la violenza di una scarica ormonale, lo rinvigorisce restituendogli la capacità di amare, anche a livello carnale.
È l’esatto opposto di Twilight, a pensarci bene. Là era Bella, la componente umana e femminile della coppia, a cambiare la sua natura per amare Edward, mentre qui è R a mutare il suo status individuale. Sono diversi i rapporti di forza, e la disposizione al cambiamento favorisce l’unione della coppia.

R vive così una seconda adolescenza, fase in cui il corpo invia segnali nuovi, e apre prospettive inedite di piacere ed emozione. All You Need Is Love, cantavano i Beatles, e non c’è nulla di più vero in Warm Bodies, dove proprio l’amore, in modo ingenuo ma tenero, si fa motore della rivoluzione: non serve una cura di origine medica per debellare la piaga degli zombie, bastano i sentimenti. Forse, più che ingenuità, questa è una vera e propria utopia.

 

Tratto dal romanzo di Isaac Marion e diretto da Jonathan Levine, regista indie che si è fatto conoscere con Fa’ la cosa sbagliata e 50/50, Warm Bodies uscirà il 7 febbraio con distribuzione Lucky Red. Un intrattenimento godibile, ma anche una storia d’amore che, stavolta, risulta tangibile per gli spettatori, poiché nasce da un’esigenza: R ha bisogno di Julie per tornare a vivere, di lei e nessun altro.
Ma, d’altra parte, Julie ha bisogno di R per scoprire la fiducia in un mondo nuovo, lontano dal terrore in cui ha trascorso gli ultimi anni della sua vita.
Vedete che, alla fine, il discorso torna alla radice: love is all they need.

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