The Sessions, o la liberazione del desiderio

Quando si appresta a ricevere il suo diploma di laurea, Mark O’Brien spera che i presenti, guardandolo sul palco con la barella e il respiratore portatile, «non vedano nient’altro che
un uomo».
Mark, purtroppo, non può ritirare il diploma sulle sue gambe: ha vissuto quasi tutta la vita in un polmone artificiale a causa della poliomelite, e il suo corpo è praticamente
paralizzato.
Ma questo non lo rende meno “uomo” di nessun altro.
È un brillante giornalista, un poeta che vive la sua condizione con ironia, seppur tormentato da quella gabbia di carne e sangue che è il suo corpo.
Una gabbia inferma, certo, ma non insensibile: Mark sente tutto, la sua pelle riceve innumerevoli stimoli che il cervello traduce in desiderio sensuale.
Un’esigenza naturale, l’amore fisico, che lui non ha mai potuto soddisfare, e che diventa una frustrazione soffocante da cui liberarsi al più presto… anche perché Mark sente che la
sua «data di scadenza» si fa sempre più vicina.
The Sessions parte dalla vera storia di Mark O’Brien per mostrarci un risvolto spesso taciuto della disabilità, quello riguardante la sfera sessuale, un intero universo d’impulsi
che una persona come Mark è costretta a sopprimere.
È qui che interviene Cheryl, terapista, surrogato sessuale che aiuta Mark a conoscere non solo il corpo di una donna – universo misterioso, seducente, mai esplorato e soltanto immaginato – ma anche il suo stesso corpo
di uomo.
Centimetro per centimetro, sensazione per sensazione, lei gli insegna ad ascoltarlo con una sapienza tutta femminile, erede di quel retaggio ancestrale che lega profondamente
ogni donna ai mutamenti periodici del proprio corpo.
Il percorso conoscitivo di Mark viaggia quindi su due binari: da un lato è una conoscenza visiva, poiché il corpo di Cheryl si svela ai suoi occhi con una naturalezza quasi pittorica, la stessa che aveva abbagliato Greg Kinnear in Qualcosa è cambiato (e infatti il corpo è lo stesso, quello di una raffinatissima Helen Hunt);  dall’altro è una conoscenza sensoriale, dettata dalle pratiche sessuali cui Cheryl lo sottopone, ispezionando la sua pelle alla ricerca di zone erogene, punti sensibili e centri del piacere, fino alla completezza della penetrazione.

Mark soddisfa così il suo desiderio, come se la perdita della verginità rappresentasse una soglia da varcare, un traguardo per sentirsi realmente alla pari.
Ma non è tutto, non è abbastanza.
Il dialogo dei corpi pizzica le corde del sentimento, e il legame fra terapista e paziente diventa più che professionale (e non solo unidirezionale, come nei classici casi di
transfert).
Il momento dell’orgasmo simultaneo, quando il piacere s’increspa come un’onda di marea anche sul volto di Cheryl, e Mark registra quell’istante nella memoria, rappresenta
la convergenza emotiva di due persone che non potranno mai stare insieme, e al contempo non potranno lasciarsi mai. Il sesso è vissuto davvero come un viaggio di conoscenza, in
The Sessions, ed è, inevitabilmente, una conoscenza reciproca.
Il regista Ben Lewin, che contrasse a sua volta la polio all’età di sei anni, ha la mano delicata, ma questo non gli impedisce di essere esplicito, diretto, cristallino: i nudi sono
tangibili, le difficoltà di Mark sono concrete, il loro superamento è un obiettivo realizzabile.
Non c’è nulla di ricattatorio, nessuna emozione svenduta a poco prezzo, anche grazie alle ottime performance “in sottrazione” della Hunt e di John Hawkes, volti e corpi che
stabiliscono fra loro una connessione viscerale, scivolando dolcemente nel tessuto dei rispettivi personaggi.
Vincitore del premio del pubblico al Sundance Film Festival, ora nelle sale italiane con 20th Century Fox, The Sessions è un’epopea privata dove lo spettatore è chiamato a provare empatia e solidarietà umana, mai pietismo o compassione.
Alla fine, quello che resta è proprio ciò che Mark sperava: nient’altro che un uomo.

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