“Crostata Pere e Cioccolato”, di Sweet&Wet
Ilaria Rebecchi | Mar 12, 2013 | Commenti 0
CROSTATA PERE E CIOCCOLATO
di Sweet&Wet
I Diari di Casanova a grande richiesta ri-pubblica interamente “Crostata Pere e Cioccolato”, il racconto erotico di Sweet&Wet!!!
————————————————————
Il gioco di sguardi era intrigante, certo.
Con il passare dei giorni era diventato la scusa per farsi carine, per indossare quella gonna o quel maglioncino attillato, per perdere quel quarto d’ora in più la mattina ad acconciare i capelli.
Com’era iniziata?
Non lo ricordava esattamente. Un consiglio sul piatto da scegliere, o da non scegliere assolutamente.
“La pasta al forno è fantastica se ascolti me…” gli aveva detto lei un giorno. O era stato qualcosa a proposito del dolce? “Ti consiglio la crostata pere e cioccolato, non te la perdere…”?
O forse era stata la risata quotidiana sulla solita grazia della cameriera, una scaricatrice più che una cameriera, capace di rovesciare il caffè sul vassoio tre o quattro volte nel giro di un’ora, immancabilmente. O era forse stato un sorriso, durante lo scambio del quotidiano: passami La Stampa e io ti passo La Repubblica?
Era certa che lui le avesse aperto la porta d’ingresso, un giorno. Pioveva a dirotto e lei armeggiava con l’ombrello, la borsa, cercando di non bagnarsi il viso, di non sciuparsi il trucco. Lui le aveva tenuto la porta aperta durante tutto il tempo, fissandola negli occhi. Ma erano entrate tutte insieme, lei e le colleghe, e non c’era stata occasione di ringraziarlo a dovere, o di scambiare una battuta. Ricordava com’era vestita, quel giorno: una di quelle giornate in cui si guardava allo specchio e apprezzava sul serio quello che vedeva. Una di quelle giornate magiche in cui sorridere e flirtare non era un problema e le riusciva facile e naturale come respirare. Una di quelle giornate in cui la sicurezza in sé stessa le rendeva possibile ogni cosa.
Il giorno dell’ombrello in cui lui le aveva tenuto la porta aperta fissandola negli occhi si era trattato proprio di una di quelle volte.
Se lo chiedeva, scopandoselo in macchina, la prima volta: l’episodio dell’ombrello aveva avuto luogo prima o dopo lo scambio di vedute sulla crostata di pere e cioccolato?
Non aveva modo di ricordarlo, all’inizio non aveva dato troppo peso alla cosa.
Il gioco di sguardi era intrigante, certo. Ma lei si era ripromessa, qualunque cosa accadesse mai tra di loro, che non se lo sarebbe scopato. Mai. Mai e poi mai.
Ma il gioco di sguardi era stato irresistibile.
Marco le stava ora infilando la mano nella camicetta, senza troppa esitazione, a trenta secondi appena dall’inizio del loro primo vero bacio, gorgogliandole qualcosa nell’orecchio con quella voce da fumatore con laringite perenne, qualcosa che somigliava a “Che tette fantastiche hai…” e lei si era ricordata del giorno dell’ombrello, del maglioncino fucsia e del push up che aveva indossato sapendo così bene quanto le sue tette sarebbero sembrate grosse e sode con quella roba addosso.
Le avrebbe trovate abbastanza sode le sue tette, adesso, senza il sostegno del push up?
Lui aveva iniziato ad osservarla di sottecchi, fingendo talvolta di voltarsi a cercare il sale, o di guardare il telegiornale. Benedetta Parodi e le sue ricette all’ora di pranzo. Non era nemmeno certa di non averlo cercato lei, quello sguardo, il primo sguardo almeno. Sapeva come lui si chiamava così come tutti gli avventori del bar, che mangiavano ogni giorno della settimana nello stesso locale durante tutti i giorni di ogni settimana, tutti i dipendenti di tutte le aziende radunate nell’area industriale lì intorno conoscevano di vista e di nome tutti gli altri avventori. Sangi, Willie, Enrico, Mollicone. Nomi, cognomi, soprannomi, non aveva troppo importanza. I loro nomi, o i soprannomi, o semplicemente il modo in cui il proprietario del bar, Matteo, li identificava, amici, conoscenti, clienti abituali, diventavano le sole identità che lei e le colleghe avrebbero mai conosciuto di tutti loro. Probabilmente, almeno. E coloro che un’identità precisa non l’avevano, a cui Matteo non l’aveva data, diventavano per lei e le sue colleghe semplicemente: “il tizio con l’Audi”, o “il tizio pelato”, o “il marito della bionda”. E si trattava in ogni caso di un’identità ben definita.
La fauna del bar dove lei e le colleghe mangiavano ogni giorno da ormai cinque anni contava una “amica di Marina”, un “macellaio”, un “ragazzino con il piercing”, una “nasona”. Esisteva anche una “brutta onesta” tra tutti loro, una ragazza molto brutta che indossava la propria bruttezza con assoluta franchezza, senza sotterfugi. Una ragazza brutta che si dimostrava del tutto onesta nei confronti della propria bruttezza, per essere chiari.
Erano tutti personaggi di una rappresentazione che andava in scena ogni giorno, dal lunedì al venerdì, dalle 12,30 alle 13,30, personaggi che si sedevano ai tavolini di marmo a gruppi di due, o quattro, o cinque persone, e ordinavano polpette e spinaci o merluzzo al cartoccio, che leggevano i risultati del calcio commentandoli in dialetto e si lagnavano della mattinata lavorativa.
Ora che ci ripensava, mentre lui le passava la sua lingua dappertutto, alla base del collo, lungo le spalle, era più che probabile che lo avesse provocato lei, quel primo sguardo.
“Sono ancora figa?” si era chiesta “Sono ancora abbastanza figa da farmi guardare da un uomo come lui?”. E aveva deciso di metterlo alla prova. Di mettere alla prova sé stessa.
“Lui” era il tizio con gli occhi azzurri del tavolo di Willie. Si chiamava Marco e per qualche ignoto motivo lei sapeva di lui che aveva una fidanzata, che si sarebbe sposato a settembre dell’anno successivo, che possedeva una Guzzi 1200 Sport con la quale aveva fatto un il giro della Corsica l’estate precedente, e che giocava a calcetto il venerdì sera.
Aveva origliato le sue conversazioni?
Assolutamente no. Conosceva di lui le stesse poche cose che conosceva di tutti gli altri avventori del bar di Matteo. Tutto quello che c’era da sapere. Nulla in assoluto. L’essenziale.
Aveva immaginato che Marco baciasse in questo modo la prima volta in cui aveva deciso di guardarlo per vedere se lui avrebbe guardato lei? Con regolarità quasi estenuante, ritmicamente, da destra a sinistra, usando tutta la superficie della propria lingua spessa? Avanti e indietro, ancora e ancora? Aveva immaginato i denti piccoli e affilati che sentiva ora scalfire le sue labbra, di quando in quando? Il sapore della sua bocca, il dolciastro residuo di tabacco nel suo alito?
Marco aveva gli occhi azzurri. Quello era il particolare che tutte loro, le colleghe, avevano notato come prima cosa di lui. Occhi azzurri, abbastanza intensi da farti arrossire, quando te li posava addosso. Occhi azzurri, ciglia scure. Qualche chilo di meno gli avrebbe donato di certo, ad essere sinceri, ma lei sosteneva da sempre che ad un uomo si perdona qualsiasi cosa: la pelata, la pancetta.
Lei quel giorno lo aveva sfidato, con lo sguardo. Aveva cercato i suoi occhi e li aveva intercettati, nel tragitto di ritorno dalla cucina di Benedetta Parodi in tv al proprio piatto di verdure miste.
Guardami, avanti.
E di nuovo, pochi istanti dopo, occhi di ritorno al proprio piatto da un giro di ricognizione della sala, per vedere chi c’è oggi al bar e chi non c’è: guardami… non vuoi vedere se io sto guardando te?
Eccomi, sì: ti sto guardando.
E ancora. E ancora. Gli occhi si erano inseguiti e incrociati e scostati e allontanati e rincontrati fino a che nessuno dei due avrebbe più saputo dire chi stava guardando chi. Chi avesse cominciato, chi avesse cercato l’altro per primo.
Non avevano più smesso da quel giorno.
La mattina successiva infilando la borsa a tracolla prima di uscire di casa lei si era chiesta se lui avrebbe notato il modo in cui lei aveva scelto l’abbinamento degli accessori. Il modo in cui il rosso dei suoi orecchini riprendeva il bracciale, e il ricamo a fiori della borsetta di lana.
Certamente no. Non avrebbe notato nulla, lui. Niente di ciò che era esteticamente apprezzabile per una donna aveva la stessa valenza per un uomo, e lei lo sapeva bene. Ma si trattava di quei particolari che facevano sì che lei sentisse bene. Attenzioni e perfezionamenti minimi, eppure così fondamentali per la sua autostima.
La collana sulla scollatura. Il luccichio degli orecchini.
Ora che la lingua di Marco di arrampicava lungo il suo collo, ora che quei denti affilati le mordevano il lobo dell’orecchio quegli stessi orecchini erano scomodi, si rendeva conto. Li aveva scelti con un’attenzione particolare, quegli orecchini. Sapendo che sarebbe successo, che se lo sarebbe scopato e che quegli orecchini, oggi, lui li avrebbe visti da vicino. Tre catenelle di argento satinato, che si allungavano dal lobo dell’orecchio fino quasi alle sue spalle nude, con piccoli brillantini al fondo di ogni catenella, per donare un punto di luce alla sua abbronzatura.
Immaginava che lui li avrebbe sfiorati con le dita, ne avrebbe sorriso. Li avrebbe apprezzati.
Ma il naso ci si incastrava, in quelle catenelle, la sua lingua risalendo la sua pelle profumata finiva per trovarsele in bocca e alla fine, alla fine accidenti, lei aveva dovuto toglierli, i dannati orecchini, e posarli sul cruscotto in un mucchietto di argento. Senza che lui li notasse nel modo più assoluto.
Le sue colleghe lo chiamavano “l’ammiratore”, ora. Aveva iniziato a mangiarsela con gli occhi nel giro di qualche giorno. Senza alcun pudore, con una baldanza che in un primo momento l’aveva infastidita.
Ecco un altro uomo sicuro di sé, aveva pensato di lui. Gli ho fatto credere che mi piacesse, e ora mi guarda come se mi credesse ai suoi piedi.
E allora era tornata sui suoi passi, aveva smesso per qualche giorno di cercare il suo sguardo.
Ma poi era successo il fatto dell’ombrello, lui le aveva tenuto la porta aperta mentre lei armeggiava cercando di non bagnarsi il viso, sciuparsi il trucco (non fosse mai!), e nel suo sguardo lei quel giorno aveva letto soltanto ammirazione, e forse un po’ di sincero arrapamento. Quegli occhi azzurri l’avevano scrutata tanto apertamente che lei lo aveva perdonato.
E la cosa era andata avanti. Era andata avanti per settimane, mesi.
Si erano guardati oltre la testa degli avventori al tavolo accanto, che intralciavano la loro visuale con gioviale menefreghismo. Si erano cercati con gli occhi tra la coda alla cassa ed il caffè al bancone. Si erano osservati oltre la ressa del martedì, ogni martedì. Si erano ritrovati dopo ogni week end e dopo ogni giorno di ferie con ritrovato entusiasmo, con l’ansia di due ragazzini, con un luccichio negli occhi e un sorriso sinceramente felice: “Eccoti! Ci sei ancora, mi sei mancato!”
Il giorno dell’ombrello, quando lui era uscito, dopo pranzo, pochi minuti prima di lei, si erano salutati con un cenno della mano, e da allora lo facevano ogni giorno.
Un sorriso, un saluto. Gli sguardi palesi.
Il commento sulla crostata di pere era avvenuto qualche giorno dopo. O forse no, si confondeva, qualche giorno prima.
E mentre lei gli apriva la zip della felpa, in macchina, quel giorno, cercando di trovare la sua pelle, armeggiando con la polo, sbottonando a caso un paio di bottoni, la sua mente ritornava a quei pranzi, alla cronologia degli eventi. Aveva una folle voglia di salirgli in braccio, di mettere fine in un minuto alla frenesia che la avvolgeva, finalmente, ma il terrore di sciupare l’attimo la paralizzava, e continuava invece a palpargli la patta dei pantaloni sentendo pulsare sotto la mano un’erezione felice, baldanzosa.
Non si sarebbe spinta oltre. Non se lo sarebbe scopato.
Il giorno in cui lui aveva lasciato cadere il tovagliolo e chinandosi a raccoglierlo le aveva guardato la gamba incrociata sotto al tavolo. La volta in cui lo aveva visto commentare qualcosa a Matteo e sorridere nella sua direzione (Matteo non aveva voluto rivelarle nulla, naturalmente, assolutamente nulla, ma aveva riso complice quando lei aveva chiesto spiegazioni). Il giorno in cui lei era così infuriata per la riunione alla quale aveva appena partecipato in ufficio che non aveva degnato di uno sguardo né lui né le colleghe, e se ne era andata a metà del pranzo a prendere un po’ di sole sul piazzale, e lui salendo in auto le aveva fatto un cenno con la mano. Le era sembrato preoccupato, per lei. Per la sua improvvisa indifferenza.
A poco a poco la cosa si era fatta tanto intrigante che mezz’ora prima della pausa pranzo il cuore cominciava a batterle come un martello. Un giorno si era chiesta se non si fosse mezzo innamorata dello “spasimante”.
“Adoro le tue tette” rantolava lui adesso infilando una mano nella coppa del suo reggiseno, cercando di sfilarne una poppa senza slacciarlo, intrufolandosi sotto alla sua gonna beige e risalendo con lentezza lancinante dal ginocchio agli slip.
Il gioco di sguardi era andato avanti per mesi.
Mesi di sguardi e saluti sempre più aperti. Il pollice della mano di Marco era scivolato finalmente sotto il bordo dei suoi slip, grazie a Dio!, e lei pensava rabbrividendo di aspettativa e incapace di reprimere il piacere al giorno in cui lui, finalmente, le aveva offerto un caffè.
Avevano visto passare le stagioni. L’inverno, la primavera. Il giaccone nero di lui era diventato un giacchino marrone, e il piumino lungo di lei un cappottino di velluto, e poi un trench, un giubbotto di pelle. Dei guanti non c’era più stato bisogno, ora all’ingresso del bar lei non doveva più preoccuparsi che una folata di vento le scompigliasse il caschetto ordinato. Era passate settimane e mesi, la primavera splendeva azzurra e fresca sull’area industriale e ogni tanto lei si era chiesta se fosse tutto normale, se non fosse folle e se non fosse in fondo preoccupante che lui non si fosse ancora mai fatto avanti per davvero.
Sguardi. Sguardi e ancora sguardi, un pranzo dietro l’altro.
E allora se l’era cercata, vero? Aveva esasperato gli eventi per arrivare a questo punto. Aveva fatto in modo di trovarsi sola al bar, quel giorno di maggio, fingendo una telefonata, fingendo di rientrare in ufficio più tardi, trattenendosi al bancone con Matteo e fingendo di decidersi per il caffè solo quando era stato il momento per Marco di andare a pagare il proprio conto e di trovarsi nei paraggi.
Lui le avrebbe mai rivolto la parola se lei non gli si fosse offerta sul piatto d’argento? Si sarebbe mai trovato con la sua mano tra le gambe se lei non avesse studiato quella giornata nei minimi dettagli? In fondo forse non si era trattato esattamente di esasperare gli eventi. Una piccola iniziativa dopo mesi e mesi di attesa possono considerarsi davvero un’esasperazione?
Il pollice di Marco, grande e caldo, aveva trovato l’occupazione perfetta tra le sue gambe, muovendosi ritmicamente come la sua lingua nella sua bocca, mentre lei ricordava come lui sembrava avere deciso cosa fare d’istinto, al bancone del bar: l’aveva salutata come si saluta una vecchia amica e le aveva chiesto “Te lo posso offrire io il caffè?”. Era ciò che lei stava aspettando, esattamente ciò che aveva sperato di ottenere infine studiando le mosse di quell’incontro.
Lei aveva risposto “ok grazie” altrettanto spontaneamente.
“Tutto bene?” aveva detto lui, e avevano iniziato a fare conversazione come avrebbero potuto farla due vecchi amici, e la cosa non aveva un minimo di senso, perché erano mesi che si mangiavano con gli occhi ma non erano amici di sicuro, e da dirsi non avevano nulla e il momento sembrava così stonato eppure perfetto, e di certo qualcuno tra tutti i presenti doveva avere notato la stranezza del loro incontro, ma in quel momento lei non aveva coscienza di nulla, se non degli occhi di lui, che la scrutavano da vicino ridendo di come lei continuasse ad allungare il caffè.
“E’ più un latte macchiato di caffè che un caffè macchiato latte!”
Si erano presentati ufficialmente (lui lo ricordava il suo nome adesso, mentre trafficava nella sua figa con perizia? Se lei gli avesse chiesto a bruciapelo “come mi chiamo?” lui avrebbe risposto correttamente?) e avevano fumato una sigaretta insieme, allungando all’infinito quella pausa pranzo, quel momento.
Era sembrato, quel giorno, che non fossero in grado di salutarsi.
Adesso lei capiva che nessuno dei due era in grado di arrivare al dunque, e questo era ciò che li tratteneva in chiacchiere inutili sotto il pergolato del bar, mentre il via vai dei clienti quotidiani si affievoliva e si faceva sempre più tardi: arrivare al dunque! Che facciamo? Siamo adulti e consenzienti e ci guardiamo ormai da un tempo sufficiente: scopiamo?
Era tornata in ufficio bagnata.
Bagnata per dio! Un caffè e una sigaretta e lei si era bagnata!
Ma era certa che lo stesso stesse capitando a lui. C’era una tensione in quello sguardo azzurro. C’era un’intenzione che lei gli leggeva chiara, quasi lui gliela stesse urlando in faccia: “Ti voglio scopare, cazzo!”
Ed era stato allora che lei aveva pensato no, assolutamente no. Si era trattato di un gioco e aveva funzionato, aveva scoperto di poter ancora attizzare, aveva scoperto che era ancora in grado di piacere se le girava bene, aveva scoperto di essere ancora mediamente figa nonostante i trent’anni li avesse compiuti da qualche anno ormai, e spesso si sentisse vecchia, e nonostante avesse colleghe più giovani di lei di dieci anni. Aveva attirato l’attenzione dell’uomo più figo che bazzicasse correntemente il bar all’ora di pranzo, si era fatta offrire un caffè e una sigaretta, c’era stato del feeling.
Il gioco era stato intrigante ma no, lei non se lo sarebbe scopato.
Lui le stava sfilando via gli slip mentre lei ricordava con quanta decisione avesse pensato in quel momento “No! Posso ancora tirarmi indietro!”.
Ma naturalmente non era andata così. Quando qualche giorno dopo lui l’aveva invitata per un aperitivo e si erano scambiati il numero di telefono lei aveva accettato, naturalmente. Mentendo platealmente a sé stessa sulle prospettive di un incontro che avrebbe anche potuto concludersi in modo innocente. Osservando il modo in cui tenendo la sigaretta sul lato destro della bocca il fumo gli facesse socchiudere gli occhi, increspandone la pelle intorno. Immaginandosi già di infilarci la propria lingua, in quella bocca.
Posso ancora tirarmi indietro, giusto?
E mentre gli infilava la mano nei boxer di cotone blu, finalmente, dopo l’interminabile trafficamento con la cintura e con la zip e con l’elastico troppo attillato su quella vita leggermente troppo rilassata, e mentre saggiava la convinzione di lui e i suoi rantoli si erano fatti quasi animaleschi, ecco, solo allora aveva iniziato a dubitare di riuscire più a tirarsi indietro, ormai.
E quando aveva infine deciso d’istinto di salirgli in braccio, perché attendere oltre sarebbe stato impensabile, impossibile, e lui allora glielo aveva infilato dentro, duro e bagnato, tenendola per i fianchi, e il calore le era esploso nelle viscere ed era riuscita finalmente a non pensare e a non riflettere e a non cercare più di ricordare tutti i passaggi che l’avevano portata a questa macchina, addosso a lui, ecco che allora era stata assolutamente chiara ad entrambi una cosa sola: il loro gioco di sguardi era finito per sempre.
©Sweet&Wet
Per info & press:
Carlo Dutto
cell.+39 348 0646089
carlodutto@hotmail.it
Info sull'autore: Direttore Responsabile art journalist & more