“Crostata Pere e Cioccolato”, capitolo II: il racconto erotico di Sweet&Wet per I Diari di Casanova
Ilaria Rebecchi | Gen 20, 2015 | Commenti 0
CROSTATA PERE E CIOCCOLATO
di Sweet&Wet
I Diari di Casanova vi presenta in esclusiva Sweet&Wet e il suo racconto erotico “Crostata Pere e Cioccolato”, in anteprima mondiale:
Sweet&Wet vive e lavora in una città media, di medie dimensioni, portici e tradizioni.
Il suo è un lavoro come un altro, in un ufficio come un altro. Quando la sera Sweet&Wet esce dal lavoro corre a casa, prepara la cena e trascorre il tempo con il marito e con il cane. E’ un’ottima cuoca, le piace sperimentare e abbonda con le spezie.
Sweet&Wet compra e legge montagne di libri, appunta citazioni, scrive continuamente e chiude nel cassetto le sue storie.
Se la incroci per la strada, Sweet&Wet ti osserva, ti scruta.
Ha già in mente un racconto per te. E abbonderà con le spezie anche in questo caso.
Capitolo II
Lui aveva iniziato ad osservarla di sottecchi, fingendo talvolta di voltarsi a cercare il sale, o di guardare il telegiornale.
Benedetta Parodi e le sue ricette all’ora di pranzo. Non era nemmeno certa di non averlo cercato lei, quello sguardo, il primo sguardo almeno.
Sapeva come lui si chiamava così come tutti gli avventori del bar, che mangiavano ogni giorno della settimana nello stesso locale durante tutti i giorni di ogni settimana, tutti i dipendenti di tutte le aziende radunate nell’area industriale lì intorno conoscevano di vista e di nome tutti gli altri avventori.
Sangi, Willie, Enrico, Mollicone. Nomi, cognomi, soprannomi, non aveva troppo importanza.
I loro nomi, o i soprannomi, o semplicemente il modo in cui il proprietario del bar, Matteo, li identificava, amici, conoscenti, clienti abituali, diventavano le sole identità che lei e le colleghe avrebbero mai conosciuto di tutti loro. Probabilmente, almeno.
E coloro che un’identità precisa non l’avevano, a cui Matteo non l’aveva data, diventavano per lei e le sue colleghe semplicemente: “il tizio con l’Audi”, o “il tizio pelato”, o “il marito della bionda”. E si trattava in ogni caso di un’identità ben definita.
La fauna del bar dove lei e le colleghe mangiavano ogni giorno da ormai cinque anni contava una “amica di Marina”, un “macellaio”, un “ragazzino con il piercing”, una “nasona”.
Esisteva anche una “brutta onesta” tra tutti loro, una ragazza molto brutta che indossava la propria bruttezza con assoluta franchezza, senza sotterfugi. Una ragazza brutta che si dimostrava del tutto onesta nei confronti della propria bruttezza, per essere chiari.
Erano tutti personaggi di una rappresentazione che andava in scena ogni giorno, dal lunedì al venerdì, dalle 12,30 alle 13,30, personaggi che si sedevano ai tavolini di marmo a gruppi di due, o quattro, o cinque persone, e ordinavano polpette e spinaci o merluzzo al cartoccio, che leggevano i risultati del calcio commentandoli in dialetto e si lagnavano della mattinata lavorativa.
Ora che ci ripensava, mentre lui le passava la sua lingua dappertutto, alla base del collo, lungo le spalle, era più che probabile che lo avesse provocato lei, quel primo sguardo.
“Sono ancora figa?” si era chiesta “Sono ancora abbastanza figa da farmi guardare da un uomo come lui?”. E aveva deciso di metterlo alla prova. Di mettere alla prova sé stessa.
“Lui” era il tizio con gli occhi azzurri del tavolo di Willie.
Si chiamava Marco e per qualche ignoto motivo lei sapeva di lui che aveva una fidanzata, che si sarebbe sposato a settembre dell’anno successivo, che possedeva una Guzzi 1200 Sport con la quale aveva fatto un il giro della Corsica l’estate precedente, e che giocava a calcetto il venerdì sera.
Aveva origliato le sue conversazioni?
Assolutamente no. Conosceva di lui le stesse poche cose che conosceva di tutti gli altri avventori del bar di Matteo.
Tutto quello che c’era da sapere. Nulla in assoluto. L’essenziale.
Aveva immaginato che Marco baciasse in questo modo la prima volta in cui aveva deciso di guardarlo per vedere se lui avrebbe guardato lei?
Con regolarità quasi estenuante, ritmicamente, da destra a sinistra, usando tutta la superficie della propria lingua spessa? Avanti e indietro, ancora e ancora?
Aveva immaginato i denti piccoli e affilati che sentiva ora scalfire le sue labbra, di quando in quando? Il sapore della sua bocca, il dolciastro residuo di tabacco nel suo alito?
Marco aveva gli occhi azzurri. Quello era il particolare che tutte loro, le colleghe, avevano notato come prima cosa di lui. Occhi azzurri, abbastanza intensi da farti arrossire, quando te li posava addosso. Occhi azzurri, ciglia scure. Qualche chilo di meno gli avrebbe donato di certo, ad essere sinceri, ma lei sosteneva da sempre che ad un uomo si perdona qualsiasi cosa: la pelata, la pancetta.
Lei quel giorno lo aveva sfidato, con lo sguardo. Aveva cercato i suoi occhi e li aveva intercettati, nel tragitto di ritorno dalla cucina di Benedetta Parodi in tv al proprio piatto di verdure miste.
Guardami, avanti.
Guardami.
E di nuovo, pochi istanti dopo, occhi di ritorno al proprio piatto da un giro di ricognizione della sala, per vedere chi c’è oggi al bar e chi non c’è: guardami… non vuoi vedere se io sto guardando te?
Eccomi, sì: ti sto guardando.
E ancora. E ancora. Gli occhi si erano inseguiti e incrociati e scostati e allontanati e rincontrati fino a che nessuno dei due avrebbe più saputo dire chi stava guardando chi. Chi avesse cominciato, chi avesse cercato l’altro per primo.
Non avevano più smesso da quel giorno.
… tbc …
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Ufficio stampa
Carlo Dutto
carlodutto@hotmail.it
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